Romanzi Non dico addio작별하지 않는다
Han Kang   |   한강
본문
-
TitoloNon dico addio
-
AutoreHan Kang
-
TraduttoreLia Iovenitti
-
Casa EditriceAdelphi
-
Anno di pubblicazione2024
-
GenereRomanzi
댓글목록

Occhiuzzo님의 댓글
miciatoby 작성일
Quando entri in un sogno l'aria è rarefatta, a volte le sensazioni sono ovattate, le immagini sono chiare, ma allo stesso tempo impalpabili. 'Non dico addio' mi ha colpito con immagini dolorose e penetranti, ma non appena cercavo di afferrare il loro significato, finivo per perdermi nei contorni soffusi del sogno.
Finito, sono rimasta per parecchio tempo a pensare, conscia che la memoria è davvero tutto e che vale la pena ricercare la verità, sempre e comunque.

Pevere님의 댓글
seoulmatez 작성일
Il reportage di un massacro.
La neve che cade è silenziosa, soffice, affascinante, ma anche letalmente gelata. La neve che avvolge l’isola di Jeju nel novembre 2018 è la stessa che si è posata sui corpi inermi dei civili giustiziati dalla polizia militare nel ‘48? È la stessa che la zia di In-seon ha delicatamente rimosso con un fazzolettino dai visi dei cadaveri ammassati davanti alla scuola, nel tentativo di riconoscere i propri familiari? Il ciclo dell’acqua si ripete inesorabile, quella neve è ritornata neve anno dopo anno, un inverno alla volta. E ora, proprio in quella neve giace Gyeong-ha, caduta nel letto di un torrente asciutto mentre tentava di raggiungere la casa di In-seon per andare a dar da bere ad Ama, un piccolo uccellino destinato alla morte.
Gyeong-ha e In-seon si sono conosciute anni addietro, quando Gyeong-ha lavorava per una rivista e necessitava di qualcuno che scattasse le foto per gli articoli più importanti. In-seon era una reporter freelance, nei suoi lavori raccontava storie di vite segnate da guerre passate, intervistava sopravvissuti, visitava in prima persona i luoghi dei racconti. All’improvviso era tornata a vivere a Jeju per badare alla madre malata di Alzheimer, aveva trasformato il vecchio magazzino dei mandarini in una falegnameria e aveva continuato a intagliare il legno anche dopo la morte dell’anziana. Viveva in quella casa sperduta tutta da sola, la sua unica compagnia erano due pappagallini, Ami e Ama. Poi, anche Ami era morto.
Una notte Gyeong-ha aveva fatto un sogno: una distesa di alberi neri con le punte mozzate, disomogenei per altezza e dimensione, sembravano persone dietro alle quali era posto un tumulo. La neve imbiancava il paesaggio ma di colpo quella che sembrava la linea dell’orizzonte si rivelava essere acqua che sollevandosi inghiottiva le tombe mentre lei, quasi impotente, cercava di salvare le ossa. Aveva raccontato all’amica il suo sogno e avevano deciso insieme di ricreare la scena, piantare dei tronchi nel terreno e dipingerli di nero, poi attendere la neve. In-seon ci avrebbe creato un reportage. Anno dopo anno si ripromettevano di iniziare questo progetto finché Gyeong-ha non si era tirata indietro pregando In-seon di non proseguire con l’idea. Lei però aveva continuato a sua insaputa, finché una mattina non si era tagliata la punta di due dita ed era finita in un ospedale di Seoul.
"Puoi venire subito?"
In-seon aveva bisogno che Gyeong-ha andasse a Jeju prima che Ama morisse di sete. Ormai erano passati tre giorni dall’incidente e non sarebbe sopravvissuto oltre se nessuno si fosse preso cura di lui. Perché aveva chiamato proprio lei se non si sentivano da tempo? Nonostante non avesse una risposta a questa domanda sapeva di non potersi tirare indietro, doveva salvare quel leggerissimo batuffolo canterino, tutto solo.
La penna di Han Kang ha trasformato questo libro in una pellicola: descrizioni estremamente sensoriali riportano in vita scenari che seppur non vissuti dal lettore, risultano familiari. La grana delle pagine di carta assume la consistenza dei cristalli di neve che sfiorano i polpastrelli di Gyeong-ha mentre i paragrafi, i capitoli, si susseguono come le scene di un film snodandosi fra flashback, racconti, ricordi, sogni, pensieri e realtà. Il ritmo è incalzante e quasi confusionario tante sono le situazioni che si avvicendano, un attimo sei davanti a juk fumante, l’attimo dopo ti ritrovi a sbirciare da un buchino nella porta dei presunti comunisti che vengono fucilati, neonati compresi. L’autrice dipinge con pennellate di malinconia la precarietà della vita. Le parole sono vibranti, vive, il gelo della narrazione viene scaldato da piatti caldi, mani anziane e tiepidi uccellini dal cuore minuscolo.
Il lato storico del libro non viene espresso in maniera didascalica bensì attraverso il vissuto dei singoli personaggi. I ricordi di Gyeong-ha si trasformano in racconti quando improvvisamente a Jeju compare In-seon, che inizia a narrarle tutto ciò che si è tenuta dentro per anni. I sogni si mischiano alla realtà, sono entrambe morte e stanno vivendo un’esperienza collettiva? Una delle due sta semplicemente sognando? In-seon tira fuori un mucchio di articoli, ritagli, persino una lettera cucita nel coperchio di una scatola. Racconta di come sua madre abbia passato la vita a cercare il fratello maggiore e di come abbia conosciuto suo marito, le cui mani tremavano a causa delle torture subite da ragazzo. Racconta delle ossa, tante ossa, delle fucilazioni e dei superstiti.
Quasi fosse un reportage di In-seon sul massacro di Jeju, con Gyeong-ha come protagonista.
Han Kang si discosta dalla generalizzazione che fin troppo spesso va a braccetto con i racconti storici. Fa nomi e cognomi, non parla di corpi ma di persone, di vittime, sia vive che morte, perché vittima è anche chi resta e si ritrova a convivere con traumi, angosce e vuoti mai colmati. Dormendo con una sega sotto al futon per scacciare gli incubi. Mettendo un dito in bocca alla propria figlia scambiandola per la sorellina morente.
Diversi tipi di tortura permeano il racconto, in primis la pratica che svolgono le infermiere sulle dita di In-seon che ogni tre minuti devono essere punzecchiate fino a sanguinare, quasi fosse una pena volta a sfinire la vittima, una selezione naturale per mantenere in vita solo il più forte. Gyeong-ha dal canto suo soffre da anni di dolori tanto intensi e debilitanti da definirli lei stessa come una tortura che il suo corpo si autoinfligge. Le sofferenze storiche si sovrappongono, si sfumano con quelle presenti, creando circolarità nel racconto, tramandando un’eredità a tratti insostenibile tanto da far desiderare la morte, quasi fosse questo il prezzo da pagare per chi, come le protagoniste, non ha voluto dimenticare. Anche l’immenso buco che trafora in profondità le anime di ogni singolo personaggio può considerarsi una tortura.
Una danza di vite che si intrecciano a tal punto da fondersi insieme quasi come se la stessa vita fosse stata vissuta da più persone, una vita che come cardine ha la determinazione. Nessuno dei personaggi getta la spugna, mai. Né nel passato né nel presente. La madre di In-seon non si è rassegnata alla scomparsa del fratello, una delle protagoniste dei reportage ha addirittura attraversato le steppe della Manciuria da sola per riunirsi all’esercito indipendentista. Anche Gyeong-ha non ha mai mollato. Avrebbe voluto farlo in tante occasioni ma alla fine ha sempre resistito, come anche In-seon in quel letto d’ospedale.
Sarebbe facile pensare che il filo conduttore di questo romanzo sia la memoria storica, il massacro, la difficoltà nel confrontarsi con una realtà di dolore e perdita. C’è però una sottile linea che attraversa la storia e ne diventa la protagonista, flebile ma luminosa, incorruttibile. Si cela dietro alla sofferenza e di fatto ne giustifica l’esistenza: l’amore. L’amore come sentimento puro che trascende ogni cosa, che da un significato alla vita stessa. L’amore di una madre, di una figlia, di una sorella. L’amore di un’amica, di un animaletto domestico, l’amore per degli sconosciuti. L’amore come motore del mondo. In-seon ha contattato Gyeong-ha perché l’ha sempre aspettata, mentre Gyeong-ha ha rischiato la sua vita per salvare un uccellino che non era nemmeno suo. Esiste forse una forma d’amore più grande di quella che sfida il tempo? Questo amore ha dato dignità al racconto di un massacro. Questo amore ha permesso a due amiche di rivedersi, forse per l’ultima volta, in una dimensione in bilico tra morte, sogno e realtà. Trascendendo ogni addio.

DiPrimio님의 댓글
Sharon 작성일
“Fu allora che capii che dolore terribile sia l’amore”
La volontà che ha guidato l’autrice Han Kang nella stesura di questo libro è, senza dubbio alcuno, l’amore incondizionato, senza riserve. Non dico addio narra di Gyeong-ha, un’autrice alle prese con gli strascichi del suo ultimo romanzo sul massacro di Gwangju, strascichi che si traducono in incubi ricorrenti, e In-seon, regista di documentari nonché cara amica, che bloccata in un letto d’ospedale di Seoul la prega di recarsi al più presto sull’isola di Jeju, dove In-seon vive, per prendersi cura del suo uccellino che rischia di morire di stenti. Atterrata a Jeju il giorno stesso, Gyeong-ha inizia la sua caduta, letterale e spirituale, nell’abisso di una delle tragedie che hanno segnato la storia coreana, ovvero il massacro di Jeju. Qui si aggiunge la voce di una terza donna, la madre di In-seon, Jeong-sim, che trasforma le pagine di questo libro quasi in un mémoire della sua vita e, di conseguenza, della tragedia storica. L'amore di cui parla Han Kang si trova soprattutto in Jeong-sim, che ha trascorso decenni alla ricerca del fratello, senza mai arrendersi. Ma si rivela anche nel rapporto di Jeong-sim con sua figlia In-seon, e nell’amicizia di In-seon e Gyeong-ha. Nessuna di loro può sfuggire alla presa che il ricordo di chi non c’è più ha sulle loro vite. Nonostante l'agonia che comporta, nessuna dice addio.
Contesto storico
Il massacro di Jeju (1948-1949) fu una brutale repressione attuata dal governo sudcoreano contro la popolazione dell’isola di Jeju, in risposta a una rivolta popolare contro l’anticomunismo crescente e le elezioni imposte dagli Stati Uniti. Furono uccise tra le 14000 e le 30000 persone, all’incirca il 10% della popolazione, incluse donne e bambini, con violenze che lasciarono un trauma profondo nella memoria collettiva. Da qui nacque la Lega Bodo (=guida, assistenza), volta a identificare e rieducare le persone sospettate di essere simpatizzanti comunisti o potenziali minacce al regime di Syngman Rhee. In realtà nata per schedare e monitorare potenziali minacce, allo scoppio della guerra tra le due Coree, nel 1950, il governo Rhee ordinò l’esecuzione di decine di migliaia di persone legate alla Lega Bodo, molte delle quali erano innocenti, inclusi civili che non avevano alcun legame con il comunismo.
Simbologia
Han Kang con la sua scrittura poetica ci lascia in grembo un romanzo forte, crudo, che è come dev’essere il ricordo di una tragedia che è propria di un’intera popolazione: difficile, reale, ancora viva. L’autrice lavora per immagini: cristalli, fili, uccellini, e fiamme: fanno tutti parte di uno schema visivo che Han Kang introduce nel romanzo per accompagnarci, mano nella mano, nelle pagine di storia che si svelano sotto i nostri occhi. Tra le immagini a mio parere più evocative abbiamo le dita, il juk, l’uccellino, e i tronchi neri coperti dalla neve.
Le dita insanguinate, come atto d’amore
L’immagine delle dita insanguinate che l’autrice ci ripropone più volte durante la lettura è, a mio parere, tra le più significative: Jeong-sim che si taglia le dita con la speranza che versando sangue sulle labbra della sorellina quest’ultima possa sopravvivere; sempre Jeong-sim che punge le dita ad In-seon per tranquillizzarla quando non riesce a dormire, episodio che si ripropone con l’infermiera che le infilza degli aghi nelle dita per riattivarle i nervi. Questi atti rappresentano un amore profondo, quasi primordiale, che si esprime attraverso il dolore fisico come forma di connessione e cura. A mio parere, incarnano una dualità emotiva che porta il lettore a chiedersi se il trauma sia una forza ciclica che si ripete nei legami familiari, come riprova che il passato continua ad avere conseguenze sul presente.
Il juk, come una medicina
Un elemento, anzi un piatto, che ho trovato curiosamente ricorrente nel romanzo è il juk, una sorta di porridge composto di cereali che in Corea viene solitamente servito a chi ha bisogno di rimettersi in forze. Non è un caso, dunque, che un ristorante di juk sia uno dei primi posti che Gyeong-ha visita dopo l’isolamento, o che proprio il juk sia il piatto che Jeong-sim prepara ad In-seon per assicurarsi, nel suo sogno, che la figlia sia viva, e che quest’ultima serve a Gyeong-ha nei loro incontri. Si tratta, a mio parere, di una scelta semplice, rassicurante e priva di complicazioni, sintomo della necessità di una guarigione che nel caso dei nostri personaggi non è fisica, ma emotiva.
L’uccellino, come impossibilità di dire addio
“Non gli volevo così bene da provare un dolore simile”
Gyeong-ha, su richiesta dell’amica, compie un viaggio disperato in una tormenta di neve per raggiungere la casa di In-seon e salvare il suo uccellino. Torniamo qui alla citazione con cui ho aperto la mia recensione: la stretta connessione tra dolore e amore. L’amore di Jeong-sim per il fratello scomparso, che ha continuato a cercare per tutta la vita (i documenti conservati ne sono la riprova), l’amore che In-seon prova per Jeong-sim, da cui non è in grado di staccarsi nonostante la malattia della madre stia divorando entrambe, per concludersi con l’affetto di Gyeong-ha nei confronti di In-seon che si traduce nel tentativo di salvare il piccolo Ama nonostante gli ostacoli. Gyeong-ha, infatti, si stupisce della foga con cui spinge sé stessa fino all’estremo per salvare l’uccellino, a cui non è mai stata legata. In questo caso, il concetto che ruota intorno alla figura dell’uccellino è sinonimo del non arrendersi, del “non dire addio”, concetto proprio anche dei famigliari delle vittime del massacro, protagonisti di una lenta ma costante battaglia per recuperare i cadaveri dei loro cari e ottenere giustizia. Potrebbe, questo, essere l’unico modo per gli esseri umani di essere umani. Reputo, infatti, la memoria come un’arma fondamentale contro la violenza che vuole l’annientamento del corpo: anche quando il corpo non c’è più, l’anima continua ad esistere nei ricordi di chi resta. Questo concetto viene rappresentato con estrema chiarezza nelle pagine di questo libro: Jeong-sim ha mantenuto vivo il ricordo del fratello e delle altre vittime, e così In-seon dopo di lei, conservando questa sorta di retaggio verbale che ci impedisce di dire addio, di dimenticare.
“Nel senso che semplicemente non ci diciamo addio, o che davvero non ci separiamo? È un addio incompiuto? Oppure è un addio rimandato a tempo indeterminato?”
I tronchi neri e la neve, come denuncia
“Nessun addio” è il nome che Gyeong-ha associa al progetto incompiuto, al sogno che la tormenta sin dalla stesura del suo ultimo libro sul massacro di Gwangju. Oltre all’interessante parallelismo con “Atti Umani”, della stessa autrice, ho notato che il sogno è un elemento ricorrente nel romanzo. La seconda metà del libro, infatti, assume un tratto onirico, mischiando sogno e realtà, con In-seon che guida Gyeong-ha come un Cicerone nell’inferno che fu il massacro di Jeju, attraverso gli archivi storici della sua famiglia. Ho interpretato l’immagine della neve che si poggia silenziosa sui tronchi anneriti come una denuncia verso il governo coreano e del suo tentativo di coprire le atrocità commesse. Le ombre che Ama, l’uccellino morto ma che inspiegabilmente sembra essere tornato in vita, proietta sulle pareti del maru, le immagino come le anime di chi non c’è più ma che richiedono ancora giustizia. Per usare una frase del libro, la neve ha un suo peso, dice Gyeong-ha, così come l’uccellino.
Conclusione
Ciò che apprezzo dello stile di Han Kang, e conseguentemente di questo romanzo, è lo stile caratterizzante della sua scrittura: unisce, infatti, una prosa semplice a un lirismo e un’intensità emotiva capace di catturare temi complessi come il dolore in modo profondo e intimo, rendendo quasi delicato il racconto delle atrocità. Interessante è, inoltre, la particolarità con cui rappresenta il modo in cui il trauma e la memoria operano: svelando la verità gradualmente, attraverso un mosaico di scenari e ricordi che l’autrice porta su pagina con una struttura narrativa frammentata, alternando prospettive, tempi e luoghi. Un altro aspetto fondamentale di Non dico addio che è proprio anche di altri romanzi di Han Kang, come Atti Umani, è quello di dare un nome e una voce a chi un nome e una voce li ha persi, come il fratello di Jeong-sim presumibilmente giustiziato nelle miniere di cobalto di Gyeongsan. In opere come queste, Han Kang funge da tramite per i ricordi delle generazioni che hanno subito ingiustizie e violenze dal governo coreano, trasmettendoli su carta a coloro che hanno ereditato questi traumi e sono costretti a scendere a patti con un passato difficile, ma offrendo loro la possibilità di affrontare questo passato insieme. Consiglio questo romanzo, e in generale le opere di questa autrice, a lettori che apprezzano la narrativa lenta e riflessiva, a chi è sensibile a tematiche forti, raccontate attraverso storie potenti e spesso scomode, e ovviamente a chi è interessato ad approfondire le tradizioni e i conflitti sociali della realtà sudcoreana facendosi guidare un Cicerone d’eccezione: il premio Nobel alla letteratura Han Kang.

Apice님의 댓글
Glenda 작성일
NON DICO ADDIO
di HAN KANG (trad. di Lia Iovenitti, Adelphi, Milano 2024, pp. 256, €20)
Recensione di Glenda Apice (Instagram: glendaapice Mail: glenda.apice@gmail.com)
Può dirsi vivo chi viene sfiorato dalla morte, risparmiato, per un lieve scarto di traiettoria, mentre procede furiosa, senza esitazioni ne rimorsi, verso i familiari, i vicini, il proprio mondo?
Nel romanzo di Han Kang il dolore attraversa i decenni e le generazioni, unisce i membri di una famiglia mutilata con un filo rosso impossibile da recidere. Il tormento sordo della perdita ingiusta e violenta anestetizza metà del corpo e della vita. I sopravvissuti, i discendenti, muoiono guardando l’imperitura marea inghiottire i resti delle ossa e dei ricordi e vivono dibattendosi per spazzare via la neve dell’oblio. Questo continuo nascere e morire ogni giorno, li rende calmi e tristi, pronti a sopportare ogni sofferenza attesa o no.
La protagonista Gyeong-ha, nella tempesta di neve, si distacca per l’ultimo lembo dalla realtà contemporanea condivisa dagli abitanti della terra. Attraversa il confine fra la vita e la morte, fra il sogno e la realtà. Si rifugia nella casa isolata dell’amica In-seon come nell’ultima bolla d’aria di una nave che affonda. Chiude fuori la neve, che tutto ricopre e dimentica e si lascia investire dai ricordi, dalle testimonianze, dalla verità. Ricostruisce la linea del tempo, ascolta le voci che ha evitato di udire per tutta la vita, fino a che quelle si sono materializzate in un incubo che la rincorre e trova sempre. Scoperto il vaso di Pandora, i suoi deliri onirici non la spaventano più, si fanno interpreti delle storie del massacro di Jeju del 1948 e ’49 e di quello durato altri anni ancora, dei prigionieri, dei trasferiti, dei fucilati.
Il mare non ha restituito i corpi inghiottiti dalla marea, delle famiglie, dei bambini ammassati in un quadrato disegnato nella sabbia e fucilati sul bagnasciuga, ma ogni giorno torna a cancellarne le tracce dalla spiaggia, dalla memoria. La terra, invece, si è insinuata fra le ossa mischiate tra loro di decine di migliaia di esseri umani, vittime del giudizio sommario di un fucile puntato alle spalle, sull’orlo di una fossa comune.
Ricostruendo la vita della madre di In-seon, Gyeong-ha scopre che ha camminano sulle catacombe dei propri avi e vissuto fra le pietre ricostruite di un villaggio dato alle fiamme. Apprende che non ha mai smesso di cercare il fratello, resistendo nella doppia realtà in cui egli fosse morto, o scappato dopo essere riuscito a strapparsi via dalla terra e dai corpi degli altri prigionieri giustiziati, senza riuscire a decidere quale delle due opzioni fosse la più dolorosa.
La penna rivoluzionaria di Han Kang ci rapisce dalle nostre vite e immerge in una sorta di delirio di conoscenza, noi come le protagoniste abbiamo bisogno di sapere, non riusciremo ad uscire dal limbo fino all’ultima sua parola. Non si può superare la morte se non si affronta la verità.
Come Gyeong-ha torna alla vita con una fiamma piccola come il battito d’ali di un uccellino, così il mondo può guardare avanti solo dopo essersi voltato indietro, visto, preso coscienza. Il filo rosso non si spezzerà, ma si perderà nell’intrecciarsi delle generazioni. Solo chi riuscirà a resistere al buio e guardare fino in fondo, sotto la soglia oltre cui la gravità vince la spinta al galleggiamento e la luce non arriva a scalfire le tenebre, potrà risalire verso la fiammella della vita.



